INTRODUZIONE
di Daniele Cernilli
Circa 120mila ettari di vigneti, che vogliono dire 1.200 chilometri quadrati di superficie, quanto la Valle d’Aosta. Quasi 6 milioni di ettolitri di vino prodotto, per un fatturato superiore a 1 miliardo di euro. Non sono i dati della produzione vinicola australiana, che è solo un poco più alta, o quella cilena, che è invece decisamente al di sotto. Sono i numeri del vino siciliano e fanno davvero impressione. Da tutto ciò si evince che la Sicilia, che rappresenta da sola il 12% della vitivicoltura nazionale, è una delle patrie del vino italiano e che sarebbe, da sola, fra l’ottavo ed il nono posto al mondo, con la Germania ed il Portogallo nettamente sopra il Cile e la Nuova Zelanda. Ovviamente non tutto è solo positivo. Qualche ombra c’è. Per esempio il fatto che solo il 20% circa del vino siciliano è imbottigliato e ha un nome, un cognome ed una provenienza dichiarata. Solo pochi punti percentuali per vini con una Denominazione di origine controllata, perché molto vino, commercializzato sfuso, prende strade diverse, talvolta per rinsanguare anemici colleghi del Nord, e non solo in Italia. Ma questi sono fenomeni comuni a molte regioni del Sud Italia e del mondo, e non c’è da sorprendersi troppo. Quello che sorprende, invece, è il trend che i vini siciliani hanno imboccato da diversi anni. Solo due decenni fa sarebbe stato impensabile realizzare una guida come questa, con gli assaggi di 100 campioni di alta qualità provenienti dalla Sicilia. Quando si parlava di vini del Sud, si diceva che, se i produttori si fossero svegliati, ne avremmo viste delle belle; ma era più un modo per apparire democraticamente possibilisti, senza manifestare uno scetticismo che restava comunque nel retropensiero di molti addetti ai lavori. Invece il gigante dormiente si è svegliato. Un manipolo di produttori, di lungimiranti imprenditori vitivinicoli, ha iniziato a trovare terreno sempre più fertile, tanto da rappresentare l’elemento catalizzatore per un vero risanamento enologico.
E il mercato si è mosso, decretando un successo travolgente per molti vini siciliani, che scalfiscono in modo sempre più netto la dittatura dei vini del Nuovo mondo, degli Chardonnay e Cabernet Sauvignon really californian and australian style, unendo all’esotico fascino di quei vitigni francesi quello più sorridente e immediato della mediterraneità. Perché vino e Sicilia si danno del tu da quasi tremila anni, cosa che non sempre viene ricordata come si dovrebbe. E tutto questo al di là delle Doc, un po’ troppo disattese dai produttori, che storicamente hanno sempre preferito fare vini aziendali, con le eccezioni di Marsala, Alcamo, Etna, Cerasuolo di Vittoria, e dei vini passiti delle Lipari e di Pantelleria, Individualismo? Poca fiducia in ciò che è istituzionale? Forse solo la consapevolezza che in Sicilia è spesso più facile fare un buon vino che uno cattivo, e che il sole, che in questa regione non manca, è un fattore quasi sempre positivo per la fotosintesi della vite e per la maturazione delle uve.
Concetti semplici, che si aggiungono al fatto che le diverse zone vitivinicole siciliane sono quanto di più vario si possa immaginare. Dalle assolate vigne di Pantelleria, in una situazione subtropicale, a quelle adagiate sulle pendici dell’Etna, a oltre 800 metri di altezza sul livello del mare: ci sono solo un paio di centinaia di chilometri di distanza ed un mondo di diversità sotto il profilo pedoclimatico. Assai più di quanto si possa trovare nell’intero continente australiano. Paradossale, forse, ma assolutamente vero.
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